domenica 17 aprile 2022

L' ANGOLO VINTAGE 2.0 e L' ANGOLO DEL CLASSICO La peste - Albert Camus

 



Per queste rubriche in collaborazione con altri blog e una storica del blog, ho letto un classico per cui credevo fosse arrivato il momento, visto il periodo, e invece forse non era proprio così...


Titolo: La peste
Autore: Albert Camus
Edizione: Bompiani; 13 giugno 2017
Pagine 336
⭐⭐⭐


Ho finito questo libro già da qualche giorno ma ho espressamente deciso di aspettare a scriverne la recensione per non rischiare di dare giudizi eccessivi e di non farmi condizionare dalla turbolenza di sensazioni sperimentate.


In realtà turbolenza è il termine scorretto perché non ho provato alcun tipo di emozione fino all’ultima parte del libro, in cui la personalizzazione delle reazioni dei singoli personaggi e l’espressione delle loro emozioni, mi hanno realmente coinvolta, cosa che fino a quel momento non era proprio successa.

Credo che il problema sia che ormai, vista la situazione che stiamo vivendo da due anni a questa parte, e descrivendo situazioni e comportamenti a me già ampiamente noti, questo testo che, per buona parte descrive l’epidemia di peste in un paese francese algerino in maniera globale, generica, della popolazione, abbia rilevato il grado di assuefazione a cui sono arrivata, nell’osservarne e sentirne parlare per tutto questo tempo quotidianamente, bombardati come siamo in qualsiasi momento delle nostre giornate.


“Il Natale di quell’anno fu più la festa dell’Inferno che quella del Vangelo. I negozi vuoti e senza luminarie, i cioccolatini finti o le scatole vuote nelle vetrine, i tram stracolmi di figure scure, non c’era nulla che rammentasse i Natali passati. In quella festa che un tempo accomunava tutti, ricchi e poveri, ora c’era spazio solo per rari pranzi solitari e ignobili che pochi privilegiati pagavano a peso d’oro in chissà quale sudicio retrobottega. Le chiese erano piene di lamenti più che di azioni di grazie. Alcuni bambini correvano nella città triste e gelida ancora ignari di ciò che li minacciava. Ma nessuno osava annunciare loro il dio di un tempo, carico di doni, vecchio come il dolore umano ma nuovo come la giovane speranza. Nel cuore di tutti c’era ormai spazio solo per un’assai vecchia e triste speranza, quella che impedisce agli uomini di abbandonarsi alla morte e che è soltanto una semplice ostinazione a vivere.”


“Fra i cumuli di morti, le sirene delle ambulanze, i segnali di quello che si usa chiamare il destino, lo scalpiccio ostinato della paura e la rivolta terribile del loro cuore, non era mai cessata la voce che aveva esortato quelle creature spaventate a ritrovare la loro vera patria. Per tutti, la vera patria era oltre le mura di quella città oppressa. Era nella macchia odorosa delle colline, nel mare, nei paesi liberi e nel peso dell’amore. E distogliendosi con orrore dal resto, era verso di lei, verso la felicità, che tutti volevano tornare.”


“Insofferenti al presente, nemici del passato e privi di futuro, eravamo come quelli che la giustizia o l’odio umani fanno vivere dietro le sbarre. Per finire, l’unico modo per sottrarsi a quella vacanza insopportabile era far ripartire i treni con l’immaginazione e riempire le ore con gli squilli ripetuti di un campanello pur ostinatamente silenzioso. Ma se di esilio si trattava, era quasi sempre un esilio a casa propria.”


L’ultima parte mi ha scossa tanto invece perché, proprio come successo negli scorsi mesi, ciò che suscita una reazione più umana, è quando si vive direttamente, sentendone parlare a livello personale.

E così le scene di Rieux, Rambert, Tarrou, ma anche Paneloux e Cottard mi hanno fatta rabbrividire nel momento della morte di un fanciullo, o piangere quando a morire era qualcun altro, o avvertire la sensazione di libertà in un semplice bagno in mare, ma anche riflettere sui pensieri di un uomo sulla capacità dell’essere umano di dare la morte a qualcun altro o vivere come fosse la mia, l’immensa disperazione di un dottore esausto per le cure e per il venire a mancare di tutti i suoi punti di riferimento anche affettivi, sentendosi solo e diverso dagli altri suoi compaesani.


È stata ipotizzata un’allegoria del testo a regimi totalitari di fine 900. Io credo che, al di là dei riferimenti storici diretti, sia ravvisabile un parallelismo con la condizione umana di oppressione, di uomo libero che viene limitato dai suoi simili, ma anche, più interiormente, di un uomo preda dei propri istinti, che in certe situazioni specifiche, arrivi a sentire l’anelito a sentimenti più elevati o che invece, in pochi rari casi, resti preda dei propri istinti e delle proprie ambizioni più primitive.

E questo appare chiaramente dal discorso di Tarrou che, visto solo letteralmente nella narrazione, avrebbe meno valore di quel che invece ha inserito in questa interpretazione.


“Per semplificare, Rieux, diciamo che soffrivo già della peste ben prima di conoscere questa città e questa epidemia. Il che significa che sono come tutti gli altri. Sennonché ci sono persone che non lo sanno, o che si trovano bene in questa condizione, e persone che lo sanno e che vorrebbero uscirne. Io ho sempre voluto uscirne.”


“Col tempo mi sono reso conto che oggi anche quelli che erano migliori di altri non potevano fare a meno di uccidere o di lasciare che si uccidesse, perché questa era la logica nella quale vivevano, e che in questo mondo non potevamo fare un gesto senza rischiare di far morire. Sì, ho continuato a provare vergogna, ho capito che eravamo tutti in preda alla peste, e ho perso la pace. Non smetto di cercarla, ancora oggi, sforzandomi di capirli tutti e di non essere il nemico mortale di nessuno. Quel che so è che ognuno deve fare il possibile per non essere più un appestato e che solo questo può farci sperare nella pace, o perlomeno in una buona morte. Solo questo può alleviare gli uomini e, se non salvarli, almeno fare loro il meno male possibile e magari forse un po’ di bene.”


Probabilmente letto in un altro momento avrebbe sortito un altro effetto, diverso da quello che ha invece avuto.

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