domenica 7 novembre 2021

L' ANGOLO DEL CLASSICO La signora Dalloway - Virginia Woolf

 

Finisco questo libro con fatica, non dovuta al libro, che comunque di per sè non è facile, ma perché due libri narrati con la tecnica dello stream of consciousness (subito prima avevo letto L’urlo e il furore) in fila sono veramente troppi.

Titolo: La signora Dalloway
Autore: Virginia Woolf
Edizione: Oscar Mondadori; 1989
Pagine 236
⭐⭐⭐⭐






Il libro è, come sempre per la Woolf, un libro complesso, non per la trama che è molto semplice, basata sulla narrazione di un’unica giornata che si svolge in parallelo da diversi punti di vista, ma in particolare da quelli di Clarissa Dalloway, di Peter Walsh, suo ex amante e tale per l’eternità, e di Septimus Warren Smith.
La complessità sta nella ricchezza di temi che porta, e di sensazioni e impressioni forti della vita, che l’autrice fa veicolare dai suoi personaggi, chiaramente parlando per loro bocca.
La tecnica scelta è l’unica che ci permette di entrare a contatto strettissimo con i pensieri dei personaggi, e, se da un lato di solito presenta l’ostacolo di non offrire chiari appigli per i cambi di scena e di pov, dall’altro la Woolf è stata talmente abile a rendere comprensibile chi stesse parlando che questa difficoltà è stata attutita.
In particolare la scelta di vocaboli e di stili così fortemente evocativi, e l’abilità di scegliere semplici elementi di scena per effettuare il collegamento tra i personaggi, hanno reso questa esperienza ancor più piacevole.
Clarissa appare come una donna frivola, concentrata sulla mondanità, nello specifico in questo caso sull’organizzazione di una festa a casa propria con tanti ospiti, ma appare chiaro, soprattutto dai racconti di episodi del passato, come fosse diversa, più passionale e impulsiva, e come abbia ad un certo punto scelto la strada più tranquilla, la più sicura, a discapito anche dei sentimenti di chi le stava intorno e confidava in lei, come Peter Walsh.
Lui dimostra di non esser riuscito a costruirsi una vita soddisfacente, restando sempre in fondo legato al ricordo di lei, anche se risulta poi esser stato quello che ha vissuto in maniera più reale, autentica, avendo vissuto di sentimenti e sensazioni.
Septimus invece è una persona totalmente estranea a questo gruppo e alla famiglia Dalloway, se non fosse per dei piccoli fugaci momenti in cui le loro esistenze durante la giornata si sfiorano.
È un veterano di guerra, tornato vittorioso e pure decorato ma dopo aver visto morire i suoi compagni, uno in particolare, e profondamente segnato da queste esperienze, tanto da cominciare a manifestare i sintomi di un disturbo post traumatico e a vedere i fantasmi dei morti che lo ossessionano.

Abbiamo due opposti a confronto. È la vita che parla, nelle sue varianti, nelle sue sfide, negli ostacoli che pone sul cammino delle persone, mettendole a dura prova.
In un caso si sceglie la via più semplice ma i tormenti tornano comunque nel tempo, nei pensieri, a cui non si lascia spazio, quindi vincendo, trionfando apparentemente.
Nell’altro caso si sceglie di affrontarla con una scelta coraggiosa, combattendo per la propria patria, ma se ne esce devastati, in un destino ineluttabile con cui mettere a tacere una volta per tutte i sensi di colpa.
Apparentemente sarebbero casi molto diversi, due vite con nulla in comune, dove in un caso se ne esce vittoriosi e nel secondo perdenti.
Secondo me invece con la conclusione la Woolf vuol farci capire che in entrambe i casi si è perdenti, e che i tormenti di Clarissa, la signora Dalloway, che per placarli deve appigliarsi a Richard, indicano che la sua vita non autentica non è una vita veramente vissuta, in cui risulta, dai commenti dei vecchi amici, arida e snob, e come fosse anche “meglio crudele, da giovane, piuttosto che snob”.
La vita vera è quella che si vive viaggiando a contatto intimo con se stessi, ma non disdegnando la vita quotidiana e i suoi piccoli piaceri.
La vita vissuta giorno per giorno ma senza aver timore della morte, e dei suoi conti, come invece accade per la Dalloway quando si parla alla sua festa della morte del giovane.
Il connubio ideale ma evidentemente più facile a dirsi che a farsi, se si vede poi come la scrittrice sia arrivata a concludere la propria di esistenza.
Alla fine per me Peter risulta vincente nel momento in cui ammette a se stesso finalmente di essere ancora innamorato di Clarissa.

“Perché alla fine era arrivata a pensare che quello che si sente è l’unica cosa che valeva la pena di dire. L’intelligenza era una sciocchezza. Si deve dire soltanto ciò che si sente.”

“La morte è una sfida. La morte è un tentativo di comunicare: la gente sente l’impossibilità di raggiungere il centro che, misticamente, ci sfugge; così ciò che è vicino si allontana; l’estasi svanisce; si resta soli. Nella morte c’è un abbraccio.”

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