Titolo: La montagna incantata
Autore: Thomas Mann
Edizione: CDE Corbaccio; 1993
Pagine 1231
⭐⭐⭐
Ho avuto bisogno di lasciar sedimentare questa lettura qualche giorno prima di decidermi a scriverne.
Purtroppo nonostante ciò non riesco a concedergli una stellina in più come avrei voluto.
Hans Castorp nasce come emblema di quel mondo borghese dell’epoca, che l’autore ha vissuto direttamente, che si rinchiudeva nei sanatori in montagna per anni, con malattie spesso inesistenti o esagerate rispetto ai piccoli acciacchi che manifestavano realmente, vivendo fuori del tempo a spese delle loro famiglie ricche.
Esperienza questa che Mann ha rischiato di fare quando, in visita alla moglie che ci ha trascorso un breve periodo, si era buscato un raffreddore.
E in questo il protagonista è perfettamente riuscito: la permanenza al Berghof dove si trova in visita al cugino Joachim, è prima forzata, poi diventa una vera e propria dipendenza, trasformando i tre mesi iniziali in sette anni, come gran parte delle persone che ci si trovano, che lo prendono come possibilità di vivere realmente un contesto sociale facendo esperienze che altrimenti nella loro vita quotidiana gli sarebbero state negate.
L’aspetto dell’attrazione per la morte, del fare il malato e farsi compatire per essere più precisi, con tutti gli aspetti dei relativi permessi che ne conseguono, di vivere in una zona franca di libertà da qualsiasi seppur minimo dovere, dove tutto è permesso e si può andare oltre quelli che sono i canoni di comportamento attesi per la loro classe.
È così che Hans comincia incredulo con l’andare in giro senza cappello e finisce per diventare impertinente, sfidando le autorità mediche, ma anche facendo conoscenze inaspettate e ergendosi a paladino del fine vita, di cui non si deve aver timore.
Purtroppo però per me non riesce nell’intento dichiarato dell’autore, di elevarsi a romanzo di formazione.
Per me il ragazzo non ha una crescita effettiva reale rispetto all’inizio ma lo lasciamo esattamente con le stesse identiche convinzioni dell’inizio, nonostante faccia delle esperienze che potrebbero aiutarlo ad elevarsi moralmente e intellettualmente.
In particolar modo l’umanista Settembrini ed i suoi consigli, che un po’ respinge e critica superbo, un po’, segretamente, apprezza, non riescono però a portargli una riflessione reale sul senso della vita e sull’apprezzarla vivendola in modo da celebrarla.
E questi discorsi sono per me l’aspetto più positivo e che arricchisce realmente il lettore, del romanzo.
Alla fine della giornata nella neve perfino, le sue riflessioni vengono dimenticate una volta superato il pericolo.
Anzi la decisione finale con cui si chiude il romanzo, che lo porta a decidersi a lasciare il sanatorio, è quanto di più emblematico di ciò possa esserci, perché è la scelta che dimostra più disprezzo per la vita di tante che avrebbe potuto prendere, ma anche quella che lo tiene all’interno del concetto di classe sociale borghese da cui si era un minimo estraniato.
E leggere più di 1000 pagine in cui un personaggio continua a scontrarsi con eventi che non lasciano su di lui alcun segno ma anzi lo rendono ancora più spocchioso, dall’alto delle sue conoscenze e dei suoi studi, dandogli l’illusione di poter giudicare e criticare gli altri che lo circondano perché a lui inferiori, diventa estenuante e fastidioso.
Infatti è stato questo fastidio a causarmi una sensazione di insofferenza a questo personaggio, che riesce perfino nella sua insistenza su posizioni che sarebbero causa di decisioni profondamente diverse in chiunque altro oggi, come per esempio nel caso del suo amore per Clavdia, a causare danni a chi lo circonda, ma senza pentirsene minimamente e non smuovendosi dalle sue convinzioni nemmeno un po’.
Le ultime cento pagine circa, in cui di eventi ce ne sono tanti, sono per me le migliori, eppure, nonostante ciò, nemmeno questi riescono ad avere su di lui l’effetto sperato, spingendolo nella direzione più errata possibile.
Anche l’autore per me qui ha avuto una leggera flessione, lasciando in sospeso un paio di avvenimenti a cui avrei preferito fosse dato seguito, in qualche modo, tra cui la presenza di Clavdia.
Probabilmente, a conti fatti, la mia riflessione è negativa più nei confronti del protagonista che del romanzo in sè, che però in questo senso presenta una grande pecca: se avesse rispettato il progetto iniziale di racconto, tenendosi in un numero di pagine ragionevole, forse la mia sensazione di fastidio sarebbe stata inferiore, restando nell’ambito delle riflessioni su un personaggio e su un’epoca storica e la classe sociale che rappresenta.
Un aspetto poi che proprio non ho compreso è, non solo perché improvvisamente il dialogo con Clavdia si dovesse svolgere nella lingua francese che Hans avrà sì conosciuto per la sua istruzione ma che non aveva usato mai fino a quel momento, ma soprattutto perché non sia stato tradotto rendendo così invece quella parte incomprensibile a chi non lo parli.
“Ci sono stati momenti in cui nei sogni che governavi sorse per te, dalla morte e dalla lussuria del corpo, un sogno d’amore. Chi sa se anche da questa mondiale sagra della morte, anche dalla febbre maligna che incendia tutt’intorno il cielo piovoso di questa sera, sorgerà un giorno l’amore?”
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