La morte è sempre stata per me un argomento alquanto tabù. Non nel senso di non poterne discutere a livello esistenziale o filosofico, e nemmeno per il fatto che mi abbia più spaventata il discorso di una morte violenta. In quanto religiosa a mio modo, non temo la mia sorte, rimettendomi nelle mani di chi è più in alto di noi e alla sua volontà e poi credo che morire nel minor tempo possibile possa essere preferibile ad una sofferenza lenta e prolungata (Ricordo solo un momento in cui mi abbia preso l’angoscia al pensiero che potessi sbagliarmi sull’aldilà e che potesse non bastare il modo in cui “pratico” in vita).
Ciò che mi ha sempre tremendamente spaventata è stato il pensiero di perdere per sempre le persone a me più care. In questo non ho mai accettato la distinzione della perdita di un figlio come se fosse più inconsolabile, perché convinta che, seppur innaturale, possa essere affrontata allo stesso modo, ma che per me la perdita di un adulto, come di un genitore, non sarebbe meno devastante.
Ma l’immagine che me ne ha dato questo libro è stata proprio questa. Mi ha in un certo senso un po’ riappacificata con il senso della morte.
Allo stesso modo mi sono convinta, e questo libro mi ci ha fatto pensare, che per fare certi lavori, come il guardiano di cimitero o anche il necroforo, conti molto, piuttosto che le superstizioni o i pregiudizi delle persone, avere una certa disposizione d’animo nei confronti della morte. Bisogna senza dubbio vederla in maniera più pacifica, più liberatoria, e non come episodio sconvolgente di una esistenza.
Qui troviamo tanti tipi di morte, da quella improvvisa e inaspettata a quella per malattia, a quella tranquilla nel sonno per vecchiaia, ma tutte conducono sempre e comunque lì, alla pace di un camposanto, dove la cura porta alla continuità, alla permanenza nel ricordo, di ciò che si è stati in vita.
È così che si legge di diversi tipi di funerali, dalle modalità più disparate di affrontare la dipartita del proprio caro, e ai discorsi più vari per salutarlo ricordando ciò che era in vita.
Alcuni di questi mi hanno proprio conquistata, come in particolare quello dei Gambini del luna park al nonno.
Mi ha confermato la mia strenua convinzione che la morte non sia esattamente “una livella” ma che ognuna raccolga in fondo ciò che ha seminato, nonostante ci sia la tendenza a farla diventare una purificazione e a considerare chiunque muoia, una persona da elogiare per la propria vita.
In questo libro non c’è, oserei dire, un’unica storia: ci sono tante diverse storie racchiuse in quella principale. sentimento
Troviamo la storia di Violette e Philippe, quella di Leonine, quella di Violette e Julien, quella di Irene e Gabriel, quella di padre Cedric e dei necrofori.
Ma c’è anche un giallo, un mistero da svelare per trovare un senso a una perdita inaccettabile e ricominciare a vivere.
A volte nei capitoli non è stato facile riuscire a capire subito dall’inizio chi stesse parlando, perché il narratore cambia di volta in volta, saltando nel tempo da un anno all’altro e non avendo titoli indicativi di ciò, pur essendo molto dolce l’idea di inserire ogni volta un epitaffio diverso.
C’è la morte come sconfitta, come per Philippe, che distrugge la propria esistenza e quella altrui rinunciando ai sentimenti veri, ma poi restando attaccato al passato senza mai emanciparsene, in particolare nella dipendenza dai genitori, e semina morte in giro. E purtroppo nell’epilogo non riesce a emanciparsene e, nel tentativo di riprendersi la vita a cui aveva rinunciato, i sensi di colpa per tutti gli anni e le persone lasciate non lo abbandonano e lo conducono a scegliere la propria fine, dove però è possibile per me finalmente vedere in lui la scelta di affrontare le cose capitategli nella sfortuna della famiglia toccatagli, diventando un uomo.
Oppure come per Irene e Gabriel che non riescono a trovare il coraggio per vivere la loro storia e lasciar vincere il proprio amore, per timore di far soffrire gli altri o forse semplicemente del futuro.
O ancora come Sasha, che costituisce però un tramite tra questa e una visione diversa della morte, con la sua capacità di vincere i sensi di colpa per non essere stato in grado di seguire la propria strada anche qui per timore di ciò che avrebbe potuto trovarvi, e restare nell’infelicità.
Ma c’è anche la morte come rinascita, laddove questa permette di emanciparsi da un passato triste e di dipendenza, di esperienze di abbandono, di non amore, di perdita, e di tornare a vivere, ritrovando se stessi, anche grazie alla storia di altri. E Violette è per me il simbolo di questo, nel suo affrontare grazie a Sasha la propria perdita, sia reale che figurata, e nel ritrovare altri pezzi di sè e la capacità di ridere, che altro non è se non la felicità del sentirsi amati, grazie all’incontro con Julien e con Nathan.
È la rivelazione che le cose possono non essere quello che sembrano, che le persone anche quelle che sembrano le peggiori e aride, possono portare dentro di sè qualcosa di puro e sentimenti veri, ma anche che quello che si crede in un modo, già terribile di per sè, possa rivelarsi ancora peggiore e nascondere del male ancora più sconvolgente.
Come nella scoperta della reale causa dell’incidente al castello, che condanna senza via di scampo, le uniche persone che, durante tutto il romanzo, non evolvono mai, restando pietrificati nel loro sentirsi nel giusto senza possibilità di redenzione, e facendo così danni irreparabili su chi gli sta intorno.
Con la figura di Sasha, che ho amato, ho trovato proprio la possibilità di passare dall’una all’altra simbolicamente, come succede per la protagonista, nell’immagine di diventare una persona che attribuisce importanza a ciò che è il tempo e in un certo senso il fato, come nella cura dell’orto, ma anche nel diventare lo strumento per poter far stare meglio altre persone.
È quello che dà alla protagonista la possibilità di capire che il lutto non è solo quello per una perdita fisica ma anche quello per la perdita di se stessi quando ci si lascia morire per una scoperta che ci avvelena.
Avendoli letti praticamente in contemporanea, mi è stato inevitabile fare un confronto con un altro libro che tratta comunque il tema della morte, con alcune differenze, ma con risultati per me completamente differenti. Mi riferisco a La figlia dell’ottimista dove la morte è trattata come staticità, come arresa all’ineluttabile e tortura nel rapporto col passato e coi sensi di colpa, da un lato, e con la condanna per non essere rimasta immobile e legata alla propria comunità e alle proprie origini ma essersene allontanata, dall’altro.
Mi ha affascinata tanto l’idea che alcuni credessero che gli animali che vanno a dormire sulle tombe dei loro cari, fossero reincarnazioni delle anime dei loro defunti.
Ed è immensamente dolce l’idea del raccoglimento di Violette che trascrive i discorsi letti ai funerali e si dedica ai suoi fiori, all’orto e ai gatti e cani del cimitero, anche se questo a un certo punto diventa un modo per sottrarsi alla vita reale e ai suoi rischi, soprattutto di soffrire ancora.
Azzeccato il lieto fine anche se un po’ poco realistico.
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