giovedì 31 dicembre 2020

Resto qui

 

Titolo: Resto qui
Autore: Marco Balzano
Edizione: Einaudi; 20 febbraio 2018
Pagine 180
⭐⭐⭐


Questa è la storia di Curon e dei suoi abitanti, un mucchietto di case circondato dalle montagne e dai pascoli, in una delle valli più belle delle Alpi, poco raccontata nei libri, con un passato di tradizioni molto particolari, più vicine all’Austria da cui sono stati strappati via che all’Italia.
E questo aspetto qui risalta molto bene.
È la storia di come sia stata costruita quella diga che ha sommerso il paese, fatto saltare in aria tutto tranne per il campanile che resta lì ed emerge dalle acque, a ricordare un passato lontano di cui è ormai unica testimonianza. Quella diga annunciata più volte negli anni senza mai diventare realtà, fino a quando poi lo è stato e nessuno se lo aspettava più.


E se fosse rimasto solo questo probabilmente secondo me il libro avrebbe acquisito un valore molto superiore.
Invece è voluto diventare anche la storia di Trina e della sua famiglia, ed è lì che per me ha perso tanto.
Questa donna non mi è proprio riuscita simpatica in nessun modo e non è riuscita a suscitare alcuna empatia nei suoi confronti, risultando solo lamentosa e l’ombra di quel che era da giovane.
Il suo racconto mantiene sempre questo tono costante di piagnucolio, di rabbia repressa che diventa ribellione fine a se stessa, di rimpianto per qualcosa che si è perduto ma che diventa ora questo ora quello, ora l’amica mandata al confino in Sicilia, ora la figlia che ha avuto la forza di andare via, ma sempre col desiderio di non averne bisogno e finendo sempre per ribellarsi a questi bisogni e strappare tutto, ma senza riuscire mai davvero a porre la parola fine.
Ed è proprio questa tenacia inconcludente che mi ha fatto chiedere il fine di questa storia senza conclusione visto che poi non riesce a raggiungere e ritrovare niente e nessuno, nemmeno se stessa.
Mi ha stupita come invece in trama lei sia descritta molto diversamente “Quando arriva la guerra o l’inondazione, la gente scappa. La gente, non Trina. Caparbia come il paese di confine in cui è cresciuta, sa opporsi ai fascisti che le impediscono di fare la maestra. Non ha paura di fuggire sulle montagne col marito disertore. E quando le acque della diga stanno per sommergere i campi e le case, si difende con ciò che nessuno le potrà mai togliere: le parole.”
Ecco io vedo più le sue azioni come un farsi trascinare dagli eventi per continuare a lottare contro qualcosa che non le faccia guardare ciò che invece le manca e che qua e là emerge varie volte nel romanzo.

Probabilmente la storia avrebbe acquistato più spessore per me se fosse stata narrata da più voci o se fosse stato tenuto il focus sulla comunità, sulla loro socialità, sulle tradizioni, sul modo che avevano di sentirsi legati al posto, che invece così traspare poco, e sembra quasi che la gente venga trascinata dall’ostinazione di Erich a non abbandonare le proprie origini, e non realmente sentita.

E questo è un aspetto che si può notare anche quando gran parte delle famiglie decide di andare via appena il nazismo ne offre la possibilità, per trovare altrove ciò che quella terra dura non offre.

L’aspetto che ho trovato più interessante è stato quello storico che mostra come si siano succeduti fascismo e nazismo, in netto contrasto l’uno con l’altro, aspetto sempre poco evidenziato nella storia.
Qui risalta bene come in sud Tirolo abbiano da sempre preferito Austria e Germania, essendo venuti fuori da lì, come anche per il discorso della doppia lingua e di come il fascismo volesse imporre l’italiano e sia risultato oppressivo anche per questo aspetto.
Diversi personaggi sono realmente esistiti e questo aggiunge un tocco in più al libro.
Mi è piaciuto anche come sia stato messo in evidenza il discorso relativo alla scuola e all’essere costretti a insegnare clandestinamente nelle case ai bambini. L’istruzione è sempre stato visto come il miglior mezzo di controllo delle masse.

La parte più toccante della storia della famiglia, ma del marito e non della donna protagonista, è quella del rifiuto della guerra, del disertare ma non per principio ma per scelta di chi gli errori della guerra li ha vissuti e ha deciso di non tornarci dopo aver avuto la fortuna di tornare e tutto intero. Dopo il racconto della fuga sulle montagne per me in realtà è come se si tornasse a una storia diversa dopo l’altra storia che risulta una parentesi slegata.

Il punto è che in realtà questi sono visti solo come intermezzi alla storia della costruzione della diga, che però risulta inconcludente e un po’ stizzisce ma forse perché, me lo sono detta una volta arrivata in fondo, è proprio la reazione che suscita quella vicenda storica per come è stata gestita e posta agli abitanti di Curon, e non per come è raccontata qui.

L’immagine del campanile che emerge dall’acqua in copertina, che mi aveva incuriosita facendo entrare il libro in wishlist, è quello di cui secondo me si parla troppo poco, e ovviamente non mi riferisco al campanile di per sè ma come immagine del dopo.
È mancata questa parte, il sentire come sia stato vissuto l’evento dopo e negli anni a venire, cosa abbiano vissuto le persone, se siano mai tornate e cosa abbiano provato vedendolo.
Invece quella della diga è la fine e questo lascia più la sensazione che si sia raccontata la storia della donna e della famiglia e non di un popolo o di un evento, e come detto, se l’intento fosse stato quello, si sarebbe potuto fare molto molto meglio.

“Guardo le canoe che fendono l’acqua, le barche che sfiorano il campanile, i bagnanti che si stendono a prendere il sole. Li osservo e mi sforzo di comprendere. Nessuno può capire cosa c’è sotto le cose. Non c’è tempo per fermarsi a dolersi di quello che è stato quando non c’eravamo. Andare avanti, come diceva Mà, è l’unica direzione concessa. Altrimenti Dio ci avrebbe messo gli occhi di lato. Come i pesci”

Ecco questo è quello che dice Mà e che lei non riesce mai a fare realmente suo se non forse alla fine ma in un dopo che non ci è dato conoscere.
Lei oscilla perennemente tra il guardare il passato e lamentarsi e compatirsi e l’andare avanti a cui è costretta, ma che non fa nulla perché avvenga nè per dargli una direzione personale.


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